“Una pillola ti fa diventare grande, e una pillola ti fa diventare piccolo.
E quelle che ti dà tua madre, invece, non fanno alcun effetto.” - Jefferson Airplane
Il libro di cui parliamo oggi si apre con il testo di White Rabbit, la celeberrima canzone della band statunitense uscita nel 1967, un brano profondamente influenzato dalla cultura delle droghe degli anni sessanta e che sfrutta i mondi e creature surreali presentati in “Alice nel Paese delle Meraviglie” e “Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò” per descrivere gli effetti di un viaggio sotto LSD.
Le opere di Lewis Carroll sono da sempre grande fonte di ispirazione e interpretazione per numerosissimi artisti a livello mondiale (le abbiamo citate anche nell'articolo dedicato a “La stanza doppia” di Laverve) e la cosa non cambia per l'autore di oggi.
Stefano Bessoni, classe 1965, è un autore, illustratore, regista e formatore di Roma. Nell'arco della sua carriera si è misurato con numerosi linguaggi, come l'illustrazione, il cinema e l'animazione stop motion, diventando una delle figure più riconoscibili nel panorama italiano grazie al suo immaginario gotico e perturbante.
Da poco è uscita una riedizione di un suo libro del 2012, “Alice sotto terra” con una veste aggiornata e rimaneggiata dal titolo “Alice sotto terra – White Rabbit edition” (ed. Logos).
In questo volume i celebri personaggi di Carroll appaiono in una sorta di parata attraverso cui l'autore ce li presenta mettendoci a conoscenza delle loro caratteristiche e peculiarità. Ma non si ferma qui il lavoro di Bessoni: nel rappresentarle le spoglia del loro aspetto più ironico e delicato a cui ci ha abituato la versione Disney, ma riporta in luce aspetti più bui e grotteschi riguardo a questi personaggi. Ed ecco che il Brucaliffo (che nel libro viene chiamato Bruco) diventa un accanito fumatore di narghilè, pipa, sigaro e della pelle essiccata delle sue mute. La Duchessa diventa una donna sgradevole che maltratta, strattona, sbatte il bimbo che culla per farlo smettere di piangere, fino a riuscirci. La Regina di Cuori diventa una creatura sanguinaria pronta a far decapitare chiunque osi guardarla in un modo a lei non congeniale, per conservare le teste in barattoli di formalina e dare il resto del corpo in mano al Tre di Cuori, appassionato di anatomia.
Questa sua volontà di far riemergere gli aspetti più macabri dei personaggi si riflette anche nel modo in cui li rappresenta: figure contorte e grottesche, talvolta immaginati come composti di parti di creature diverse, con corpi di animali e volti scheletrici. Un lavoro di ricerca che getta le radici nella passione dell'autore per le Wunderkammer e i tavoli anatomici.
Ma adesso parola a Stefano, che meglio di tutti ci può descrivere il suo lavoro e immaginario:
Ciao Stefano, benvenuto su Illustrada. Questo libro ha visto la luce per la prima volta nel 2012 e ora, a distanza di 9 anni, esce con una nuova edizione. Ci racconti come mai hai deciso di riprendere in mano il progetto e ampliarlo?
Chi conosce un poco il mio lavoro si è ormai abituato a continui rimaneggiamenti, aggiunte, stravolgimenti in corso d’opera, perché considero ogni progetto un viaggio di ricerca, una riflessione aperta destinata ad arricchirsi senza impedimenti. Così, approfittando dell’occasione di una nuova edizione, ho voluto riprendere in mano questo strampalato ‘bestiario’ stilato con lo sguardo di un naturalista dall’animo vittoriano, diviso tra la passione per gli insetti, gli scheletri, gli spettri, la fotografia. Mi sono rimesso in viaggio tra gli abitanti del sottosuolo, osservandoli con uno sguardo macabro, quasi da ‘intruso’. Ho voluto continuare a giocare sostituendo ancora una volta “Paese delle Meraviglie” con “Sotto Terra”, perché Lewis Carroll aveva ambientato questo mondo nelle viscere della terra. In questa nuova incursione ho ritrovato Alice, ormai divenuta un’abitante di quel mondo celato nell’oscurità e rischiarato di luce propria, perfettamente calata nella realtà ribaltata che dovrebbe invece meravigliarla.
Sono passati ormai tanti anni da quando ho cominciato a trascorrere del tempo con i personaggi immaginati da Carroll. Ricordo che era il periodo del liceo, quando cominciai a disegnare liberamente una mortifera bambina con i capelli a caschetto ispirata alla vera Alice Liddell, conigli scheletrici, bruchi psicotici e gatti sorridenti, senza seguire un’idea precisa. Le cartelline si riempirono di schizzi, acquerelli, incisioni, e arrivai a completare una prima serie nel 1989, che però non diventò mai un libro. Poi, quasi dieci anni fa, decisi di realizzare un piccolo taccuino di viaggio con schizzi e appunti sugli abitanti del Paese delle Meraviglie. Era la prima edizione di Alice Sotto Terra.
Ricordo molto bene le classiche edizioni illustrate da John Tenniel o da Arthur Rackham, ma anche quella del pittore e incisore ceco Dušan Kállay, che rimane la mia preferita in assoluto, le fotografie di Vladimir Clavijo-Telepnev, o lo spettrale film di Jan Švankmajer, che un giorno lontano vinse la mia ritrosia nei confronti di Alice, suscitata dalla versione Disney, con i suoi smorfiosi nomignoli come Stregatto, Bianconiglio e Brucaliffo, edulcorata e canterina, spalancandomi le porte di un mondo inaspettato.
Per comprendere la vera natura del capolavoro di Carroll è necessario approcciarsi al testo in modo completamente diverso da come ci hanno abituato le tante versioni banalizzate per ovvie esigenze commerciali. A tal fine può essere di aiuto The Annotated Alice, un’edizione dei due libri di Alice ragionata e commentata da Martin Gardner, dove ogni singolo personaggio, elemento e situazione vengono analizzati andando a ricercare possibili significati. Continuo a sperare che un giorno Marilyn Manson possa finalmente ultimare il suo controverso Phantasmagoria: The Visions of Lewis Carroll, un ambizioso quanto allucinato film che affonda nelle elucubrazioni deviate che gli scritti di quel timido reverendo vittoriano possono suscitare nei meandri più oscuri dell’inconscio.
Nelle tue immagini spiccano con forza riferimenti alle Wunderkammer e a tutto ciò che è grottesco a perturbante. Da dove nasce questo tuo interesse e qual è stato il percorso per integrare questi immaginari all'interno del tuo lavoro?
Sicuramente uno dei pilastri della mia poetica è lo studio sul Perturbante di Sigmund Freud, dove si palesa il Doppelganger e al quale sono arrivato indirettamente, attraverso il racconto di E.T.A. Hoffmann L’Uomo della Sabbia, un racconto che vorrei affrontare in futuro come libro illustrato.
Anche la wunderkammer è un concetto fondamentale, considero il mio lavoro, in ogni sua accezione, una camera delle meraviglie dove rinchiudere tutto quello che in me desta stupore e meraviglia e trovo peculiare che in molte lingue la cinepresa sia chiamata camera, perché permette di catturare, immagazzinare e conservare, vincendo, in maniera del tutto aleatoria, il concetto di morte. Ho iniziato a interessarmi alle wunderkammer verso la fine degli anni Ottanta, in occasione di un’edizione della Biennale di Venezia dedicata ai rapporti tra arte e scienza. Cominciai a studiare gli scritti fondamentali di Adalgisa Lugli e a trasformare in stimoli espressivi le suggestioni che mi arrivarono dai curatori di questi musei peculiari, da Ferrante Imperato, Basilius Besler, Ole Worm, Manfredo Settala, Athanasius Kircher, fino alle raccolte dei surrealisti, alle scatole di Joseph Cornell e ai film- wunderkammer di Jan Švankmajer e dei Quay Brothers.
Quello che spinge alla creazione di una wunderkammer è il desiderio, o forse il bisogno irrefrenabile, di riunire in un luogo protettivo e magicamente astratto dalla realtà una campionatura del mondo il più possibile estesa. La wunderkammer era, ed è, un microcosmo a parte, generato secondo le regole di un demiurgo che attinge dal mondo circostante, trasformando una comune stanza in un museo del mondo, in un tempio consacrato all'accumulo e al possesso. Esistevano anticamente wunderkammer d'ogni foggia e dimensione, potevano essere allestite in una piccola stanza, contenute all'interno di un armadio o interessare un intero edificio. L'epoca di massimo splendore delle camere delle meraviglie terminò verso la metà del Settecento, con l'avvento del moderno pensiero scientifico, anche se l’impulso che spinge alla loro creazione sopravvive tutt'oggi forte come non mai, forse poiché coincide con un bisogno antico quanto l'uomo: quello di possedere e controllare l'universo in cui vive.
Mi rammarico però che oggi tutti ne parlino in maniera spesso superficiale, che molti abbiano cominciato ad appropriarsene, lavorandoci sopra e svilendone spesso l’essenza. Si è arrivati addirittura a favorire un mercato scellerato che ha sconfinato nell’antiquariato e nell’arredamento. Ma forse la colpa è anche un poco mia... Bisognerebbe a volte custodire gelosamente le proprie scoperte. Si, ho l’ardire di pensare che il mio continuo blaterare attorno a wunderkammer e scienze inesatte abbia contribuito a diffondere la curiosità per questo concetto.
Quali sono artisti del mondo del cinema e dell'illustrazione che ti hanno ispirato a trovare la tua cifra narrativa?
Gli autori cinematografici che stimo e che inevitabilmente influenzano il mio lavoro, oltre naturalmente Jan Svankenmajer e i fratelli Quay, pionieri e scienziati pazzi di quella stramba disciplina che è l’animazione in stop-motion, sono tutti autori fortemente caratterizzati, riconoscibili dopo poche inquadrature e che possiedono uno stile inconfondibile ed una poetica molto vicina alla mia. Ammiro Jean Pierre Jeunet, per il suo mondo grottesco, fumettistico, colorato, poetico. Tim Burton, per il suo universo oscuro incentrato sulla diversità. Peter Greenaway, per il suo rigore scientifico, per il suo stile pittorico e per il suo essere barocco, enciclopedico, artificioso, anacronistico. Greenaway è il mio maggiore punto di riferimento. Il suo lavoro mi ha guidato nella faticosa costruzione di una poetica e mi ha fatto capire molte cose, come per esempio che bisogna sempre fidarsi solamente dell’opera e non dell’autore. Lo seguo e lo stimo tuttora, alla soglia dei suoi ottant’anni e il mio sogno sarebbe dedicargli una biografia disegnata che mi permetta di manifestare nelle illustrazioni tutta la fascinazione e la gratitudine che provo per lui, qualcosa di libero, aperto alle sperimentazioni e alle contaminazioni.
Poi mi piace Guillermo Del Toro, per i suoi personaggi usciti direttamente da un vecchio libro di fiabe trovato in un vecchio baule in soffitta. Roman Polansky per la sua teoria del complotto, per la fobia per gli spazi chiusi e per la sua faccia da attore ideale di sé stesso, che come nessun'altro riesce ad incarnare il proprio doppio. Terry Gilliam per il suo folle baraccone di curiosità e stranezze che lo trasforma in un moderno Barnum. E ancora, Wim Wenders, Werner Herzog, Derek Jarman, Ken Russell, Federico Fellini...devo fermarmi, ma sarebbe un elenco assai lungo. Poi ci sono i fotografi Joel Peter Witkin e Roger Ballen, che rappresentano una ferma e continua sorgente di suggestioni preziose per la mia ricerca espressiva.
Per l’illustrazione invece, escludendo gli autori storici, provo una profonda ammirazione e invidia per Dušan Kállay, prima citato per la sua versione di Alice, per Stefan Zsaistits, Lars Henkel, Dave McKean, Roland Topor, Lisbeth Zwerger, adoro i teatrini macabri di Elizabeth McGrath... ma, anche qui sarebbe una lista interminabile.
Ci racconti che tecnica usi?
Io non mi considero un illustratore, ma uno ‘scarabocchiatore’ e quando vedo i lavori degli altri illustratori sono colto da profondi complessi d’inferiorità. Il mio lavoro con le immagini non è un rigoroso esercizio di tecnica e di stile, bensì un semplice modo per catturare e fermare idee. Mi piace schizzare con la matita, a volte usare gli acquarelli, le tempere e gli acrilici, per giocare con un po’ di materia e forzare la bidimensionalità che il foglio di carta impone, in ogni caso cerco sempre di lavorare in velocità, per non essere sopraffatto dalla ricerca effimera dell’effetto estetico e dalla mia proverbiale pigrizia.
Utilizzo quindi una tecnica molto mista, che mescola su carta acrilico, acquarello e matita, a volte anche collage. Poi lavoro digitalmente, compositando tutti gli elementi che formeranno l’illustrazione finale. È paradossale, perché, nonostante il fatto che un buon novanta per cento del processo avvenga con tecniche tradizionali, alla fine l’immagine è digitale e quindi virtuale, totalmente effimera e votata al dissolvimento improvviso.
Titolo: Alice sotto terra – White Rabbit edition
Editore: Logos Edizioni
Anno di pubblicazione: 2021
Prezzo di copertina: € 17,00
Pagine: 88
Stefano Bessoni è illustratore, regista cinematografico e animatore stop-motion. Si è diplomato presso l’Accademia di Belle Arti di Roma. Ha realizzato diversi film sperimentali, installazioni video, performance e documentari, attirando l’attenzione della critica e ricevendo numerosi premi in occasione di festival nazionali e internazionali. Ha insegnato regia presso la NUCT – Scuola Internazionale di Cinema e Televisione a Cinecittà e presso l’Accademia di cinema e televisione Griffith di Roma, dove è stato titolare di un corso di alta specializzazione dedicato al cinema visionario e fantastico. È coordinatore e docente del corso triennale di illustrazione e animazione presso la Scuola di Design, Moda, Arti visive e Comunicazione IED di Roma. È inoltre docente presso lo IED di Milano, la Scuola di Illustrazione Ars in Fabula di Macerata e la Scuola Holden di Torino. Tiene regolarmente workshop presso scuole e festival specializzati. Ha scritto e diretto numerosi film e ha pubblicato molti libri illustrati.
DI
ANDREA OBEROSLER
Andrea Oberosler è un animatore e illustratore trentino.
Lavora per privati ed editori e nel 2019 sono usciti i suoi primi albi illustrati, tra cui “La Maschera della Morte Rossa e altri racconti” (ed. Bakemono Lab), un tributo a Edgar Allan Poe con cui comincia ad esplorare le potenzialità dell'illustrazione gotica.
Nel 2019 vince il premio oro nella sezione editoria dell'Annual di Autori di Immagini.
(Foto di Stefano Pradel)